Le intenzioni del Premier Inglese Theresa May e della sua ‘hard Brexit’ sono chiare e dal suo punto di vista comprensibili: negoziare per mantenere un completo accesso al mercato unico dell’Unione Europea senza dover più sottostare alla Corte Europea di Giustizia e, soprattutto, alle regole sulla libera circolazione delle persone e dei lavoratori. Così sembra facile: la botte piena del mercato unico e la moglie ubriaca della liberazione dagli obblighi che lo hanno reso e lo rendono possibile.
Il carico da novanta lo ha messo oggi la ministra degli interni britannica, Amber Rudd, la quale ha annunciato che il governo intende chiedere alle imprese di rivelare il numero dei dipendenti stranieri per favorire l’assunzione di sudditi di Sua Maestà. Stranieri vuole dire anche italiani, per capirci.
Immagino sia palese anche a chi ha formulato la proposta che questo atteggiamento non può certo essere compatibile con il mercato unico.
Dietro questa retorica nazionalista, peraltro, è assai difficile scorgere una qualche razionalità economica.
In primo luogo, i lavoratori dei paesi comunitari, come anche gli altri, lavorano in Gran Bretagna in virtù delle loro abilità professionali, offerte in un mercato competitivo, e rappresentano quindi la scelta di maggiore efficienza e competitività per le imprese.
In secondo luogo, come nel caso di decine di migliaia di giovani italiani, rappresentano capitale umano di qualità, formato a spese delle famiglie e dello Stato italiano, dei cui frutti, meritoriamente, usufruiscono le aziende londinesi della City e di altre parti del paese della Rudd.
Di questo passo sarà presto necessario chiarire agli amici inglesi che, se cedessimo alle loro richieste, tra rigurgiti etnonazionalisti e protezionisti, mineremmo le fondamenta dell’Unione Europea e, alla fine, non resterebbe nemmeno il mercato unico, nemmeno quello dei servizi finanziari che tanto sta comprensibilmente a cuore oltremanica.
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